Prisoners of an Interior and Exterior Cultural Apartheid

Not being heard makes you feel more alone. Not listening divides, separates, breaks.
Listening is the basis of encounter, confrontation, knowledge, acceptance, conscience.
The lack of listening is not only the emptiness generated by the absence of encounter, comparison, knowledge, welcome, conscience, but it is the impossibility of understanding its value and of acquiring its meaning both in a social and individual context.
It is a sort of “cage of the soul” in which we enter alone, we lock the iron grate alone, alone we sing to ourselves our solitude, deliberately unaware that it is the same solitude that everyone around us breathes.
That cage represents, we delude ourselves, the boundary within which we can protect ourselves from differences and protect ourselves from the general indifference. In reality, that cage represents our defeat, our inner and outer “cultural apartheid”, our separation from each other as we fear the commitment of difference and the responsibility of encounter.
In fact, I believe, this fear, never really overcome, is not the fear of the other, but the fear of ourselves condemned to a way of life and being in which the real enemy is ourselves.
It is a cultural apartheid that tends to divide one from the other but which, in reality, separates every human being from himself, obscuring his thinking with clichés and making every action ephemeral with the invention of distance.
The greatest distance that I see, the clearest separation, is that between us and ourselves that, closed in that cage sweetened as much as possible to make it look more beautiful, we have lost the taste for recognition and knowledge, the aroma of encounter and of the awareness of what it means to “meet”, we have forgotten the contact with the truth that every human being contains within himself.
It is a cultural apartheid in which everyone believes they are superior, but no one can prove it, since no culture and no person can ever be superior but only different, since each culture and each person is themselves and no economic criterion is a good yardstick. to separate the truth from the lie.
Furthermore, the cultural apartheid by which we have chosen to be represented, is not only directed towards the outside, but is also expressed within each community, whether large or small, manifesting itself not as dissent resulting from discernment, but as blindness fueled by one’s selfishness.
Having stopped listening seals our lives in those iron cages in which we have locked up our discontent by pretending to be happy with distance and loneliness.
The lack of listening, offered and received, gives space and time to that inner and outer cultural apartheid so that one stops listening to even one’s own voice reduced, by now, to a distant echo distorted by selfishness and indivisualism thanks to which we have emptied our living and existing meaning in a time that no longer seems to belong to us, but to which we are passive, slow and asleep slaves.

Non essere ascoltati fa sentire più soli. Non ascoltare divide, separa, spezza.
L’ascolto è la base dell’incontro, del confronto, della conoscenza, dell’accoglienza, della coscienza.
La mancanza di ascolto non è solo il vuoto generato dall’assenza di incontro, confronto, conoscenza, accoglienza, coscienza, ma è l’impossibilità di comprenderne il valore e di acquisirne il significato sia in contesto sociale che individuale.
È una sorta di “gabbia dell’anima” nella quale da soli entriamo, da soli serriamo la grata di ferro, da soli cantiamo per noi stessi la nostra solitudine, volutamente ignari che sia la stessa solitudine che ciascuno attorno a noi respira.
Quella gabbia rappresenta, ci illudiamo, il confine entro cui possiamo tutelarci dalle differenze e proteggerci dalla generale indifferenza. In realtà, quella gabbia rappresenta la nostra sconfitta, il nostro “apartheid culturale” interiore ed esteriore, la nostra separazione da ogni altro poiché temiamo l’impegno della differenza e la responsabilità dell’incontro.
Difatti, io credo, questo timore, mai realmente superato, non è il timore dell’altro, ma il timore di noi stessi condannati a un modo di vivere e di essere in cui il vero nemico siamo noi stessi.
È un apartheid culturale che tende a dividere gli uni dagli altri ma che, in realtà, scinde ogni essere umano da se stesso ottenebrandone il pensiero con i luoghi comuni e rendendo effimera ogni azione con l’invenzione della distanza.
La distanza più grande che io vedo, la separazione più netta, è quella tra noi e noi stessi che, chiusi in quella gabbia edulcorata quanto possibile per farla sembrare più bella, abbiamo perso il gusto del riconoscimento e della conoscenza, l’aroma dell’incontro e della consapevolezza di che cosa significhi “incontrare”, abbiamo dimenticato il contatto con la verità che ogni essere umano contiene in sé.
È un apartheid culturale in cui ciascuno crede di essere superiore, ma nessuno può provarlo, poiché nessuna cultura e nessuna persona potrà mai essere superiore ma solo differente, poiché ciascuna cultura e ciascuna persona è se stessa e nessun criterio economico è un buon metro di giudizio per separare la verità dalla menzogna.
Inoltre, l’apartheid culturale dal quale abbiamo scelto di essere rappresentati, non è rivolto solo verso l’esterno, ma si esplicita anche all’interno di ciascuna comunità, grande o piccola che sia, manifestandosi non come dissenso frutto del discernimento, ma come cecità alimentata dal proprio egoismo.
Aver smesso di ascoltare sigilla le nostre vite in quelle gabbie di ferro in cui abbiamo rinchiuso il nostro scontento simulando di essere contenti della distanza e della solitudine.
La mancanza di ascolto, offerto e ricevuto, dà spazio e tempo a quell’apartheid culturale interiore ed esteriore affinché si smetta di ascoltare persino la propria stessa voce ridotta, ormai, a un’eco lontana e distorta dall’egoismo e dall’indivisualismo grazie ai quali abbiamo svuotato di senso il nostro vivere ed esistere in un tempo che sembra non appartenerci più, ma di cui siamo schiavi passivi, lenti e addormentati.

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