Davide Scutece: In nome del lavoro

In nome del lavoro (Nulla die, 2020) è un interessantissimo graphic novel di Davide Scutece. Non conoscevo l’artista e non nascondo che, affascinata dai disegni di questo libricino, ho cercato notizie dei suoi lavori e ho potuto ammirare le foto dei suoi quadri dove anche i colori più luminosi hanno, per me, il fascino di un paesaggio interiore più sofferto.

In nome del lavoro, che si arricchisce della prefazione del sociologo Dario Leone, è la rappresentazione grafica di una consapevolezza: la durezza e spesso sfruttamento del lavoro in fabbrica, dove sembra che gli uomini diventino ingranaggi pari a quelli dei macchinari su cui operano per svolgere il proprio lavoro. Un lavoro in cui, via via, l’operaio perde la sua dimensione di persona e diventa non più gestore ma schiavo della macchina; un lavoro in cui la de-personificazione è portata fino all’estremo al punto da far perdere la coscienza di sé, del lavoro, dei diritti che spettano a ogni essere umano in quanto tale a favore e per il privilegio di un capitalismo economico che rende l’umano pedina del profitto di cui non gusterà i benefici.

Ogni pagina presenta un disegno e una parte di narrazione, badate, non una didascalia, ma una parte della storia umana raffigurata nei disegni che è anche storia sociale. Il colore prescelto è il nero, i toni cupi, il tratto pesante, il fumo delle fabbrica sembra essere il respiro stesso degli operai, malcurati, sfruttati, non protetti né tutelati nello svolgimento del proprio lavoro. C’è sconforto e disillusione nella narrazione, ma anche il tentativo di scuotere il silenzio che circonda la condizione degli operai in molte fabbriche. C’è anche una perdita di speranza e di fiducia in quei mediatori il cui ruolo spesso tradito dovrebbe essere di “mediare”, appunto, mentre può trasformarsi nel “principio di apparire” per se stessi e non per chi si rappresenta.

Osservando con accuratezza le immagini, ho provato la sensazione di essere immersa nella condizione scabrosa e avvilente della più dura delle distopie. Un mondo molto simile a quello descritto da George Orwell nel suo “1984”, un mondo che è presente e reale e dal quale non si può sfuggire sebbene si finga di non vederlo. La narrazione, invece, richiama un’altra distopia, quella di Aldous Huxley in Brave New World, una distopia in cui ciò che appare è diverso da ciò che è, è una falsità che si vuole far credere reale di una apparente organizzazione e stabilità che, però, nasconde solo la pressione esercitata dal potere e dal controllo. Sulla stessa linea la scansione temporale della narrazione (A.M, Anno Zero, D. M.; dove si intende prima e dopo Marchioni) che mi ricorda tanto la scansione temporale di Huxley in A.F. (anno Ford).

La cupezza delle immagini di Davide Scutece in In nome del lavoro (Nulla die, 2020), non è rassegnazione, ma invito alla consapevolezza e alla scelta.

In nome del lavoro (Nulla die, 2020) is a very interesting graphic novel by Davide Scutece. I did not know the artist and I do not hide the fact that, fascinated by the drawings in this little book, I looked for news of his works and I was able to admire the photos of his paintings where even the brightest colors have, for me, the charm of a interior more suffered landscape.

In nome del lavoro, which is enriched by the preface by sociologist Dario Leone, is the graphic representation of an awareness: the hardness and often exploitation of work in the factory, where it seems that men become gears equal to those of the machinery on which they operate to your work. A job in which, gradually, the worker loses his personal dimension and becomes no longer a manager but a slave to the machine; a work in which de-personification is taken to the extreme to the point of losing awareness of oneself, of work, of the rights that are due to every human being as such in favor and for the privilege of an economic capitalism that makes the human pawn of profit whose benefits he will not enjoy.

Each page has a drawing and a part of the narrative, mind you, not a caption, but a part of human history depicted in the drawings which is also social history. The chosen color is black, the dark tones, the heavy line, the smoke of the factories seems to be the very breath of the workers, ill-cared, exploited, unprotected or protected in carrying out their work. There is discouragement and disillusionment in the narrative, but also an attempt to shake the silence that surrounds the condition of the workers in many factories. There is also a loss of hope and trust in those mediators whose often betrayed role should be to “mediate”, precisely, while it can turn into the “principle of appearing” for themselves and not for those who represent themselves.

By carefully observing the images, I experienced the sensation of being immersed in the rough and humiliating condition of the hardest of dystopias. A world very similar to that described by George Orwell in his “1984”, a world that is present and real and from which one cannot escape even if one pretends not to see it. The narrative, on the other hand, recalls another dystopia, that of Aldous Huxley in Brave New World, a dystopia in which what appears is different from what it is, is a falsehood that is meant to be believed to be real of an apparent organization and stability that however, it only hides the pressure exerted by power and control. Along the same lines, the temporal scansion of the narrative (A.M, Anno Zero, D.M .; where we mean before and after Marchioni) which reminds me so much of Huxley’s temporal scansion in A.F. (Ford year).

The gloom of Davide Scutece’s images in In nome del lavoro (Nulla die, 2020), is not resignation, but an invitation to awareness and choice.

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