di Antonella Santarelli
Loredana De Vita presenta a Scampia, nel liceo Elsa Morante, il romanzo
Non scavalcare quel muro, Nulla Die Edizioni, riscuotendo attenzione e
interesse tra gli studenti sui temi della violenza di genere, sugli stereotipi e
sui luoghi comuni. Palcoscenico, ancora una volta la città di Napoli.
La storia narrata in “Non scavalcare quel muro” edito da Nulla Die, è una
storia vera. Che cosa ha provato nel sentirla narrare?
Una lacerazione profonda, un graffio sul cuore. Quando ci si trova dinanzi
a persone con storie così dure, non si può restare indifferenti, il da farsi,
poi, resta una scelta. In molti scelgono il silenzio perché spesso è più
comodo, io non potevo stare zitta e ho accettato di calarmi profondamente
nella narrazione e farla mia. A volte il dolore è inutile se non viene
impiegato per esserne responsabilmente voce.
La protagonista del romanzo è una donna, Maria, sebbene anche suo
marito, Giovanni, abbia un ruolo imponente nella narrazione. Marco
invece, il figlio di Maria, sembra un non-personaggio: qual è il suo ruolo?
Marco rappresenta la persona “presente assente”. Lui è là, ma sfugge, cerca
riparo per se stesso nel tentativo di non lasciarsi coinvolgere. Marco è
diviso tra lo stereotipo maschile che incarna in lui il privilegio dell’essere
maschio, appunto, e il tentativo di passare inosservato. Da una parte si
rifugia nei privilegi che lo sostengono, ma dall’altra la sua fuga lo isola e lo
rende molto solo. Non credo che Marco sia una persona che abbia trovato
pace nella sua fuga, probabilmente non è riuscito a riscattarsi dalla sua
storia, non è riuscito a darle un significato che possa salvarlo. Marco
striscia via, ma non può che restare schiacciato proprio dal suo silenzio.
La descrizione della città, Napoli, appare come la metafora della vita di
Maria. E’ così?
Sì, si può anche leggere così. Napoli è una città do luce e di buio, una città
in cui bisogna continuamente scegliere da che parte stare e mettersi
sempre in gioco. Anche la storia di Maria è così. Quello che può sembrare
buio, come per esempio il suo sottostare alla violenza di Giovanni,
nasconde in realtà la luce visionaria del suo bisogno di proteggere i figli.
Napoli è una città “carnale”, dove ogni emozione (di gioia, dolore, rabbia,
paura) si espande in senso verticale e orizzontale e si ripete a distanza
come un’eco. Così la storia di Maria: le sue emozioni non si fermano a lei
stessa, ma corrono,saltano, travolgono, accendono rabbia e spengono sogni
in tutte le persone che le vivono accanto. Napoli è una città travolgente,
così la storia di Maria che dilania i protagonisti, chi legge e chi scrive, chi
racconta e chi ascolta.
La storia di Maria è molto dura, scritta come per ricreare negli occhi e
non solo nella mente le situazioni vissute. Perché tanta crudezza?
Ho avuto molto scrupolo a scriverla così, ci ho pensato a lungo. Mi sono
chiesta se fosse giusto ferire il lettore in maniera così lacerante. Infine, ho
deciso di sì. Non per sadismo, ma perché quando si leggono o si ascoltano
in televisione le notizie di donne “fatte morte” (cioè uccise dal compagno
perché donne, perché ritenute un possesso, perché è inaccettabile perdere
il dominio su di esse), l’attenzione si sposta sull’uomo che ha ucciso per
“passione” o perché “soffriva”… inaccettabili giustificazioni a delitti che
giustificazioni non hanno. La crudezza mi ha aiutato a raccontare tutto
quello che accade prima del loro assassinio, tutto il dolore su cui si basa la
distruzione della dignità di una donna fino a farla sentire colpevole. La
crudezza serviva a spiegare un quotidiano nascosto che nessuno racconta.
Le donne “fatte morte” erano vive prima che cominciasse la loro fine.
Abbiamo visto che sebbene questo sia il suo primo romanzo, lei ha scritto
molti saggi di cui due dedicati alla figura femminile, “Donna a metà” e
“Oltre lo specchio”. Come mai questa attenzione sulle donne?
Perché sono donna e perché vedo che ancora troppi stereotipi e luoghi
comuni tendono ad ampliare anche con violenza le differenze tra uomini e
donne. Sono convinta che la differenza sia armonia e che educarsi alla
differenza rappresenti l’unica possibilità per sconfiggere la violenza di
genere. Parlare anche agli uomini attraverso i miei libri, significa
dimostrare che i discorsi sulla violenza di genere non sono cose “da” donna
o “di” donna, ma riguardano tutti.
Ci ha detto di insegnare Lingua e letteratura inglese, c’è uno scrittore o
scrittrice che la coinvolge particolarmente?
Ce ne sono molti, ma tre in particolare se penso ai romanzi. Isabel Allende,
Ernest Hemingway, José Saramago. La Allende con la sua narrazione forte
e poetica assieme, mi guida nella percezione di significati nascosti;
Hemingway dà un nome a tutte le cose, le ri-crea e scrive una prosa
“assolutamente onesta”; Saramago perché è oltre il tempo, oltre la
superficie, oltre i canoni usuali di qualsiasi relazione umana. Sono tre
scrittori che mettono al centro della loro narrazione la persona e le sue
mille sfaccettature, questo è un pensiero che amo e che condivido.
Pubblicato domenica 12 marzo 2017